Dovevo attraversare la soglia del razzismo, del pregiudizio, dell’ignoranza e della paura verso l’altro: il diverso, colui che non corrisponde agli standards normali e normati, della società organizzata nella griglia delle convenzioni sociali.
Lo spazio espositivo più che un luogo avrebbe dovuto configurarsi come un nonluogo, lo spazio dello standard per eccellenza, quasi fosse un ponte attraverso cui accompagnare il visitatore.
Quindi il luogo per eccellenza, il Palazzo cardine della nostra Repubblica, gli ambienti progettati da Carlo Maderno dedicati alla mostra, si dovevano necessariamente annullare per amplificare il senso di straniamento ed alienazione.
Ora, anche il progetto mi è chiaro: tutto lo spazio dedicato alle installazioni è avvolto nel nero. Le stanze, annullate ed oscurate, sono rischiarate soltanto al centro del soffitto da grandi oculi che si aprono verso gli affreschi delle volte. L’apertura verso l’alto determina un’assialità ascensionale sulla storia dei luoghi, una sorta di asse temporale la cui coordinata è fermata all’epoca degli affreschi. Per sottolineare il passaggio ad una nuova sensibilità, tutti gli attraversamenti esistenti sono lasciati a vista, con le cornici lapidee dei portali storici in evidenza.
La mostra si sviluppa attraverso tre sale.
La sala del tavoloITALIA è un prisma vuoto e oscuro che esalta l’opera di Anton Roca, una rappresentazione della sagoma geografica dell’Italia composta da 20 tavoli assemblati in modo da formare una piattaforma abitabile. L’installazione galleggia nello spazio vuoto ed è unicamente sottolineata da fasci di luci che si proiettano dalle pareti lanciando lunghe ombre sulla pavimentazione. Una gigantografia riprodotta su una parete, come uno specchio temporale, evoca la presenza reale degli abitanti.
La sala dei centocinquanta è un’installazione costituita da una griglia seriale di 150 cubi, paradigma dei pregiudizi, degli standards e delle convenzioni della società normata. Ogni cubo è un box illuminotecnico-espositivo, una scatola stilizzata, una memoria da raccontare attraverso una singola opera su tela, quelle che Simonetta Lux definisce efficacemente come –condensazioni concettuali o visuali di vite ed esperienze-
L’incontro con l’altro, il diverso, avviene attraverso flash o illuminazioni improvvise e casuali.
Una scatola si illumina, la rigida griglia si decompone, dallo spazio cubico fuoriesce un gesto, un’idea, una traccia di vita, mentre simultaneamente si proiettano frasi sorprendenti, frammenti di pensieri. Poi anche il soffitto si anima, i cubi fuggono caoticamente verso l’alto finalmente liberi dalla griglia. La paura è vinta, il pregiudizio è abbattuto.
La sala del tricolore non è una citazione retorica, è un tricolore metamoderno lucido e topologicamente avvolgente che sappia essere simbolo e stimolo, storia e prospettiva, che riesca a raccontare nuove sensibilità ad una sempre giovane Italia, che raccolga ed accolga come una vera casa. Un tricolore in cui riconoscere e riconoscersi anche oltre la didascalica ordinarietà, che ondeggi al vento di chi porta il nuovo, il diverso, ben fermo sull’asta anche quando su di esso si abbatte la tempesta.
Un tricolore che amiamo soprattutto quando protegge i più deboli e sostiene i giusti, che ha voluto aprirsi alla colomba bianca mentre porta in volo il ramoscello d’ulivo attraversando un iridescente arcobaleno.